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giovedì 27 marzo 2008

Struttura, tecnica e materiale del tappeto Tibetano

Come ha commentato l'amico antonio, "il tappeto tibetano, praticamente sconosciuto in occidente sino alla fine degli anni cinquanta, è annodato con modalità esecutive che trovano scarso riscontro in altre realtà produttive. La tecnica chiamata a "cappi recisi", in altri casi conosciuta solo attraverso studi archeologici legati all’Asia occidentale ed all’Egitto, viene realizzata con l’aiuto di canne, o assicelle, su cui è avvolto il filo che poi sarà tagliato dando origine al vello."
Il nodo tibetano, di derivazione persiana, non è in genere molto fitto ma assai resistente.
Il filo di lana che esce dal nodo forma un occhiello utilizzato per reinserirsi nel nodo successivo. Gli occhielli vengono recisi poi tutti insieme con una bacchetta di ferro. Caratteristica dei tappeti tibetani era di essere foderati o bordati con fasce di panno rosso, venivano confezionati con lane locali, di Yak e pecore tibetane. Proprio i materiali impiegati, in particolare lo spessore del vello e la densità dei nodi, indicavono la qualità di un tappeto. Nel corso del 1900 si iniziò nell'orditura a sostituire il cotone alla lana, mentre le tinte chimiche soppiantarono quelle naturali vegetali. I tappeti tibetani hanno nome e forma diversi: cuscini (jangbye), schienali (thigyabyo), da seduta per Alti Lama (gomden), personali (khaden e nyeden) e via via. Un tipo particolare di tappeto, kyongring o kyongden, era destinato alle lunghe e strette panche dei monaci, e riportava quadrati di circa 60 cm. atti a indicarne la seduta.

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